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EscrivÀ:
una vita poco chiara

di  Don Luigi Villa

 

Fonte: Chiesa viva, n.419 Sett. 2009, pagg.2-4

       La ragion d'essere di questo articolo sta nella domanda finale, con la quale si conclude: come mai le "prove" del suo agire superbo, non vennero neppure trattate nel processo delle sua "Canonizzazione"?
       È uno dei tanti misteri vaticanosecondisti!...
       Ma è bene mettere i puntini sulle i e dire che intanto la beatificazione non implica l'infallibilità pontificia, che la stessa "santificazione" non è certo che ne goda e che fino ad oggi non è intervenuta nessuna definizione dommatica che possa obbligarci a credere infallibile la "santificazione" né tantomeno la beatificazione.
       Anzi addirittura potremmo dire che la beatificazione di Escrivà sia la prova provata che essa non è garantita dall'infallibilità.
       A chi griderà allo scandalo per queste nostre asserzioni diciamo semplicemente: dimostrateci che sbagliamo.

La Redazione

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       È difficile ricostruire i primi anni della sua esistenza, anche perché viene esagerato parecchio sui fatti che farebbero credere indubbiamente l'ispirazione sulla fondazione della sua Opera; una sequela di fatti che dimostrerebbero che fin dalla sua infanzia fosse prescelto ad attuare cose grandi.

       La sua famiglia era una famiglia come tutte le altre. Il padre faceva il commerciante, che poi fallì, lavorando come dipendente.
       Ma questo non li evidenzia dagli altri, come si fece poi, rappresentando il nonno e la nonna come figure mitiche. Il "De Belaguer" sarà inventato molto dopo, quando Escrivà si fece Barone di San Filippo, attribuendosi il marchesato di Peranta.

 




 
       È difficile ricostruire i primi anni della sua esistenza, anche perché viene esagerato parecchio sui fatti che farebbero credere indubbiamente l'ispirazione sulla fondazione della sua Opera; una sequela di fatti che dimostrerebbero che fin dalla sua infanzia fosse prescelto ad attuare cose grandi.

       La sua famiglia era una famiglia come tutte le altre. Il padre faceva il commerciante, che poi fallì, lavorando come dipendente.
       Ma questo non li evidenzia dagli altri, come si fece poi, rappresentando il nonno e la nonna come figure mitiche. Il "De Belaguer" sarà inventato molto dopo, quando Escrivà si fece Barone di San Filippo, attribuendosi il marchesato di Peranta.
       Comunque, i suoi biografi d'allora lo presentavano come un "genio", un bambino prodigio, eccellente negli studi, attribuendogli, persino, un dottorato in Diritto Civile, mentre frequentava nello stesso tempo, come alunno, il Seminario di S. Carlos in Zaragoza, dove i suoi condiscepoli lo consideravano, invece, un "mediocre", un "incostante" e un altezzoso.

       Questo lo si vedrà, poi, in seguito, quando si vantava addirittura che il suo telefono fosse diretto con Dio che gli dettava persino come doveva essere la sua Opera.
       I suoi comandi, quindi, li considerava come l'esecuzione della Volontà di Dio, e i suoi insegnamenti facevano disprezzare gli altri modi di interpretare il cristianesimo. Uno dei "numerari" dell'Opera diceva che la cristianità "ricominciava con l'Opera".
       Nel disprezzo verso gli altri cattolici, i seguaci di Escrivà includevano anche i Gesuiti, non tanto per le obiezioni dottrinali, quanto perché toglievano a loro le élite intellettuali ed economiche.
       Questo pensare così superbamente del Fondatore e dei suoi soci non è un pensare personale dei vari opusdeisti, perché ogni scritto ed ogni conferenza erano previamente passati in rivista dai Superiori, ma, soprattutto, perché lo stesso
Escrivà insegnava a tutti gli appartenenti all'Opera che essi si dovevano considerare come superiori a tutti gli altri.
       Incredibile superbia!
Infatti, egli disconosceva la tradizione e la dottrina dei venti secoli della Chiesa cattolica, per cui la sua Opera "doveva creare tutta la dottrina teologica e la ascetica, oltre che la dottrina giuridica", ed Escrivà scrisse: «Mi confrontai con una soluzione di continuità di secoli: non c'era niente»!
       È un discorrere che combacia con quello di Lutero e di Calvino che rifiutavano la dottrina e la tradizione cattolica. Quindi, per Escrivà, non valevano i duemila anni della Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana. Tutta la spiritualità diffusa dal Vangelo per il mondo, per Escrivà valeva niente!
     
 La vita e l'Opera di Escrivà sono tutte impregnate di superbia. Attorno a sé, egli creò un mito che cercava non l'umiltà dei Santi, ma gli onori e le adulazioni degli uomini!

* * *

 




       Arrivò fino a dire che, nel Seminario di Zaragoza, fu nominato Superiore ancora prima che fosse sacerdote. Naturalmente, non portò mai alcuna prova di questo. Come non provò mai che, da Escrivà dei Romani, era diventato Escrivày Albàs, e non riposò fin quando non riuscì ad ottenere il titolo di Marchese di Peralta.
       Nel suo curriculum scrisse che studiò Diritto all'Università di Zaragoza e divenne avvocato; ma non c'è alcun modo di comprovare questo titolo, come neppure il supposto dottorato in legge. Si direbbe, invece, una smargiassata per un suo futuro processo di canonizzazione. A farlo pensare ci sarebbe quel suo frequente dire ai suoi associati: «Dovrete prendere nota di tutte le cose della mia vita; non vi accada come ai gesuiti che adesso si pentono di non averlo fatto per il proprio Sant'lgnazio». Né fu inascoltato, perché i suoi figli si premurarono sempre di raccogliere detti e qualsiasi cosa appartenente alla sua persona e fondazione.
       Un vero affanno per il suo culto!
       Persino le sue mortificazioni le effettuava in modo che venissero a conoscenza di molte persone, quasi a diffondere la fama di un "uomo di Dio".
       Maria Angustias Moreno scrisse perfino che «in ognuna delle case grandi dell'Opera c'era un'area speciale per gli usi del Padre, provvista di alimenti e rinfreschi abbondanti e con varietà. Quando fu in America, si inviarono,
via aerea, meloni solo per il Padre, perché gli piaceva tale frutta». E aggiunge: «Durante una visita a Jerez, nel 1972, si considerò che in tutta la Siviglia non c'erano dolci sufficientemente selezionati da servire. Ho visto piangere la direttrice del Centro dell'Opera perché non trovava, nella città, il cucchiaio con in quale il Padre voleva gli fosse servita la minestra.»... «Ho visto uomini, cattedratici, direttori, generali, ingegneri, etc. mangiare torte imbottite di Imés Rosales, perché il Padre aveva commentato che erano deliziose... In ogni Centro dell'Opera si trovavano indumenti, specialmente selezionati, per ogni uso del Padre; vesti nuove, comprate solo per lui, incluse vestaglie da riposo».
       Alberto Moncada racconta che quando Antonio Pérez era segretario generale dell'Opera, gli chiesero da Roma una decorazione spagnola per il Padre: «In un momento, l'ottennero dal ministro di turno, incastonata di pietre preziose in oro, ed egli gliela portò. Il povero uomo si meravigliò perché Escrivà gliela restituì arrabbiato. Poi, Alvaro De Portillo gli spiegò che al Padre si potevano regalare solo diamanti».
       Riguardo la vita di Escrivà ci sono due versioni: una, che parla di uomo umile, mistico, pio, tutto di Dio; e l'altra, che espone il vero volto del Fondatore: una vera farsa montata attorno a lui, raccontata da moltissimi usciti dall'Opera, i quali, con fatti concreti, lo dipingono ben diversamente.
       Per chi ha studiato seriamente la vita di Escrivà, l'ha vista
tutta impregnata di superbia, quasi una idolatria, un mito attorno alla sua persona, tutta cerchiata di onori e di distinzioni.

* * *

 

 

       Che fosse così, lo comprova il modo in cui promosse la idolatria verso la sua persona; la sua arroganza verso chi non credeva che ogni sua parola o azione fosse Volontà di Dio; il suo agire con bassezza e il suo mentire, usando calunnie e diffamazioni contro chi non credeva che la sua opera fosse veramente una creazione divina.
       Le testimonianze ad hoc sono moltissime.
       Il sacerdote Vladimir Feltzman, depose che il carattere di Escrivà era terribile «lo lo vidi dar calci tremendi alle porte. Non lo si poteva contraddire». Maria del Carmen Tapia, già segretaria personale di Escrivà, segnalò che di lui "ricordo solo cattiva educazione, e le sue forti sfuriate per qualsiasi contraddizione, e molti atti di superbia". L'avvocato Carlos Albàs Minguez, nipote di Escrivà, affermò che la superbia era uno dei difetti (!) più avvertiti di suo zio.
       La sua egolatria arrivò al punto di dire, in tante riunioni e conferenze, «Venite a parlare con me; approfittatene adesso perché, tra poco, non lo potrete più fare, perché installeremo una grande Casa nella stessa Roma, vicino al Vaticano, da dove potremo governare il mondo. Tutto questo con i soldi di ogni Stato, e in edifici ufficiali che ognuno di essi (...); io mi installerò lì, ed allora non potrete parlare con me... Approfittate adesso»!
       
Al contrario di quello che scrisse su "Cammino" (N. 592-593-838...), in molti punti, sull'umiltà, la carità, la comprensione verso tutti, etc. In realtà, la storia dell'Opera è ben altro delle belle frasi, perché segnata da calunnie, da diffamazioni ed altro che distruggono tutto il "Cammino".
       
Il sacerdote numerario Pérez Tenessa, ridotto, poi, allo stato laicale, fu fatto uscire dall'Opera per l'ipocrisia del Padre, il quale ordinava si agisse finanziariamente per sostenere l'espansione opusdeista, anche se fosse necessario violare i princìpi etici.
       In pubblico, però, Escrivà faceva sapere che lui non interveniva mai nella vita professionale degli associati all'Opera, mentre, invece, in privato, impartiva istruzioni in concreto, benché riuscisse ben difficile conciliare l'obiettivo spirituale dell'Opus con il maneggio materialista del Padre.
       Ad un altro dei membri della Commissione «ordinò che, quando ricevevano istruzioni inviate da lui, da Roma, nella riunione della Commissione Regionale, si inginocchiasse, si ponesse la busta con i documenti sopra la testa e si dicesse: "Questo viene dal nostro fondatore, pertanto viene da Dio, e bisogna metterlo in pratica con tutta la nostra anima"».
       Ma guai a chi abbandonava l'Opera, perché subito la reazione dell'ira opusdeista si manifestava terribile con una intensa campagna di calunnie, come fu, ad esempio, per Maria Angustias Moreno, che trascorse 14 anni come socia numeraria dell'Opus Dei, e fu accusata di essere lesbica dall'Opera che la minacciò di possedere prove molto gravi contro di lei. Anche Maria del Carmen Tapia, già segretaria personale del fondatore, quando uscì dall'Opera, fu perseguitata, calunniata e accusata di avere pervertito varie donne con i peggiori inganni.
     
 Allora, come mai queste "prove" del suo agire superbo, non vennero neppure trattate nel processo delle sua "Canonizzazione"?

Don Luigi Villa

 

 

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