Precisiamo che articoli, recensioni,
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non in base ad una adesione ideologica o morale, ma solo
se ce ne viene fatta esplicita richiesta (anche con una semplice
comunicazione fatta alla nostra Redazione a scopo di pubblicazione),
pur rimanendo noi liberi di soddisfare o meno i desiderata.
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Per
meglio valutare il senso dello storico accordo raggiunto al Wto, con cui
i Paesi ricchi hanno accettato di aprire i loro mercati ai prodotti agricoli
dei Paesi poveri, e di tagliare i sussidi ai propri coltivatori, è
il caso di ascoltare Bob Stallman. Il quale è, oltre che grande
allevatore texano (bestiame e riso), il presidente della American Farm
Bureau, la lobby dell'agribusiness Usa. «Non stiamo facendo harakiri»,
ha spiegato ai suoi colleghi Stallman: «In cambio, otteniamo qualcosa.
Per noi è un passo obbligato per avere un più vasto accesso
ai mercati mondiali».
Insomma se i ricchi rinunciano a proteggere la loro produzione agricola, è perché ne hanno calcolato il tornaconto. I tagli ai sussidi agricoli sono infatti solo parte di un accordo che impegna tutti i Paesi, ricchi e poveri, a ridurre tariffe e dazi su ogni altra merce, anche industriale o immateriale (servizi). E quel che conta per i Paesi avanzati, è che gli altri abbattano le loro barriere contro l'importazione di beni industriali esteri. Si tratta della parte maggiore del commercio mondiale (il 60%), e quella che interessa più i Paesi avanzati. Attualmente, un'auto prodotta in Giappone o in Germania ed esportata in India, Mali o Indonesia viene "rincarata" con dazi che possono superare il 100%, e sono in media del 40%. Si apre la possibilità di esportare manufatti da primo mondo nel secondo mondo dove cresce tumultuosa una nuova classe media, in Cina e in India. Ancora: in cambio di concessioni sull'agricoltura, i Paesi ricchi hanno ottenuto dagli altri l'impegno ad aprire i loro mercati dei servizi pubblici agli investitori esteri, con l'obbligo di accelerare la privatizzazione di tali servizi. E qui, si tratta di un campo dove il primo mondo, coi suoi capitali e la sua efficienza, conta di accaparrarsi il business. Niente di male, si capisce, in via di principio. Ma si trema al pensiero di ciò che può produrre, in Paesi particolarmente deboli come quelli africani, la "liberalizzazione" a prezzi di mercato di servizi come la sanità e l'istruzione, o addirittura la cessione ad aziende straniere con scopo di lucro della distribuzione di acqua potabile, in zone del mondo dove essa è un bene raro. V'è infatti un terzo mondo forte e gigantesco, come Cina e India, che sa difendersi e può davvero trarre grandi vantaggi dall'accordo "storico" testé firmato. E un terzo mondo debole, che rischia di fare qualche amara scoperta: per esempio che il vecchio e detestato sistema di "quote", che garantiva ai Paesi africani uno sbocco certo in Europa per i loro prodotti (banane e cacao, o tessili di cotone), li proteggeva anche dalla competizione del cotone indiano e dei prodotti cinesi, che ora possono spiazzarli. D'accordo, forse è bene non essere troppo malfidenti. Molto dipenderà da come l'accordo-quadro firmato a Ginevra, 17 pagine, sarà tradotto (dopo quanti mesi di negoziati non si può prevedere) in corposi e concreti accordi. Ma appunto si tratta di vegliare e non abbassare la guardia, perché questa ulteriore fase della globalizzazione non favorisca solo i soliti noti. En passant, conviene notare che anche i Paesi ricchi non sono tutti uguali nell'accordo: i sacrifici degli agricoltori europei sono superiori a quelli che subiranno i loro colleghi americani, grazie alla diversa struttura dei sussidi nella Ue e in Usa. Anche su quello converrà vegliare. Maurizio Blondet |
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