Ricordiamo
il 134° anniversario dell'occupazione sacrilega di Roma, Città
Santa del Cattolicesimo, con la pubblicazione di alcuni brani tratti
dal libro LE DUE ROME. DIECI ANNI DOPO LA BRECCIA, del padre
gesuita Gaetano Zocchi (Tip. Giachetti, Figlio e C., Prato 1881).
«Vi ha la Roma
vecchia e la Roma nuova.
Vi ha la Roma dei
Papi e la Roma dei framassoni.
Vi ha la Roma che
prega e quella che bestemmia; la Roma dei martiri e quella dei tiranni;
la Roma benedetta e quella maledetta.
Vi ha la Roma di
granito e la Roma di cartapesta; la Roma eterna e quella che, nata
ieri, non è certa di vedere il domani.
Vi ha la Roma di
Cristo e la Roma dell'Anticristo
Essa
era la città di tutti i popoli della terra e la patria di tutte
le genti per cagione del suo Pontefice, che è il padre universale
dei cattolici; perciò, secondo la sublime sentenza del Fénelon,
ogni cattolico è romano. Ora il Sommo Pontefice della Chiesa
Cattolica si trova chiuso dentro al Vaticano, che è la sua
reggia e la sua prigione, il suo trono e la sua croce, il suo tempio
e il suo Calvario. Della restante Roma altri divennero signori; e
perciò fuori della cerchia del Vaticano, a propriamente parlare,
non vi è più Roma, ma un cumulo di edifizii e di ruine,
di antico e moderno, di grande e venerando e di piccolo e spregevole,
che altra volta fu Roma, ora non è più nulla.
[La fedeltà
dei romani al Papa] mi pare abbastanza provata dal modo con cui accolsero
la rivoluzione entrata in Roma per la breccia di Porta Pia. Il popolo
romano rimase nella massima parte estraneo a quel movimento, cominciato
e continuato da forestieri; le larghe promesse, lo splendido fantasma
di avvenire fecondo di ricchezze e di potenza, che sembrava inseparabile
dal titolo fastoso di capitale di un grande regno, non illusero il
popolo romano. Sicchè, mentre tutte le altre città italiane
venivano ciecamente travolte nei flutti della passioni anarchiche,
Roma invece diede esempio memorando di fedeltà al suo antico
e legittimo Sovrano. Professori, impiegati, soldati, grandi signori
e principi, elessero il sacrificio, gli stenti, il disprezzo, l'oblio,
piuttosto che mutar casacca.
Soprattutto la strage
delle case religiose, dei conventi, dei monasteri, di chiese e di
istituzioni pie; la licenza illimitata concessa ad eterici di qualsiasi
setta, che ora hanno chiesa e scuola in tutti gli angoli di Roma,
e adescano i miserabili e la feccia del popolo con promesse di guadagni
materiali, e all'occasione affiggono nei luoghi pubblici avvisi
crudelmente oltraggiosi alla fede cattolica, resero i nuovi padroni
oltremodo antipatici ai romani.
Veniamo a Montecitorio.
Qui sono gli eletti del popolo, qui è il palladio delle pubbliche
libertà, qui è l'arena delle gloriose tenzoni nazionali.
Ai tempi del Papa-Re, nel palazzo di Montecitorio, opera di un Papa
Innocenzo, onde chiamasi anche palazzo Innocenziano, era la sede della
polizia pontificia. Ora i poliziotti se ne sono andati: partiti gli
onorevoli poliziotti, entrarono gli onorevoli deputati! Il luogo delle
loro solenni comparse è l'aula provvisoria architettata nel
1871 dall'ingegnere Comotto, in forma di una baracca di legno, di
ferro e di cristalli, stretta, disagiata, color di cioccolatte, e
di disgraziata figura. Goffo baraccone è il nome, onde essa
venne battezzata allora e che porta tuttavia; ma l'avrebbero potuta
benissimo chiamare gabbia, poiché uno degli onorevoli (scordai
quale) non dubitò una volta di asserire solennemente, credo
in nome proprio e de' suoi colleghi: noi siamo una gabbia di matti.
Codesta gabbia o baraccone, che dir si voglia, in un col palazzo,
costò ai contribuenti italiani cinque milioni e mezzo! Di che
tanto più ammirevole è lo zelo, con cui gli inquilini
di Montecitorio trattano gli affari dl popolo italiano che li ha mandati!
Già non sono mai troppi nel baraccone sopra descritto! Quando
poi in un modo o in un altro si sia finalmente razzolato il numero
legale, le discussioni incominciano. Parlano pochi, ma parlano egregiamente:
sono bocche d'oro! Specie se si tratta di rompere lance contro preti,
frati, persone e cose di Chiesa, correte, oratori, correte ad ascoltare
in Montecitorio: non troverete i migliori maestri a cercarli fra milioni?
E quelli che tacciono, cioè la maggior parte? Quelli ascoltano?
No, quelli vanno e vengono dall'aula al buffet, dal buffet all'aula;
o, se sono avvocati, il che, per disgrazia nostra, si verifica almeno
ottanta volte su cento, preparano le loro arringhe per la Corte delle
assise. Alcuni ridono, altri interrompono l'egregio oratore, poi,
giunto il momento opportuno, votano tutti. Ma come votate in buona
coscienza per il bene del popolo che vi ha mandato, se a non avete
seguita la discussione, o solo a sbalzi e sbadatamente? La
discussione non è fatta per quelli che debbono votare, ma per
quelli che debbono leggerla nei giornali e negli atti ufficiali.
La discussione non muta mai il risultato
del voto, che si conosce già prima della discussione.
Su per la comoda via aperta
dalla munificenza di Pio IX, fui sulla piazza di Montecavallo, vicino
al monumento equestre, opera superba di greco scalpello, dinanzi al
palazzo del Quirinale! Quel palazzo colle sue sontuose sale, colle
sue opere d'arte, coi suoi giardini, era stato la reggia di molti
Papi. Anche Pio IX vi aveva, prima dell'esilio, posto la sua Corte.
Ora quel palazzo è sede di un re e di una regina, portati a
Roma dal turbine rivoluzionario, e si dicono incoronati dalla volontà
popolare. In quelle sale, al cospetto delle sacre scene dipinte dal
pennello devotissimo dell'Owerbek, si danza e si banchetta: in quei
giardini viene Garibaldi a restituire cavallerescamente al re d'Italia
la visita; ricevutane nella propria casa. Sopra la porta principale
del palazzo sporge una loggia. Di lassù ogni Papa, appena eletto
dal Conclave, dava al popolo affollato la sua prima benedizione di
Pontefice e di re: ora il re e la regina d'Italia ricevono lassù
le ovazioni del popolo sovrano. Sotto l'arco maestoso di quella porta
passavano cardinali e Prelati in severo abito talare, colle mozzette
ed i rocchetti del cerimoniale liturgico; ora invece di là
entrano ed escono le eleganti toilettes delle dame di corte e delle
mogli di generali e ministri. È una processione assai poco
edificante di soldati che bestemmiano e di ministri che vanno a sottoporre
alla firma reale leggi e decreti, di cui non pochi recano lo sfratto
di monache o di religiosi, lo smantellamento d'una chiesa, l'abolizione
del catechismo, la leva dei chierici, il matrimonio civile e andate
voi discorrendo. E sopra quella porta restano tuttavia S. Paolo colla
spada sguainata, S. Pietro colle sue chiavi, la Vergine Santa col
Bambino tra le braccia!
Lessi il nome di tutte
le vie delle già finite e di quelle che si stanno terminando.
D'Azeglio, Cavour, Manin, Gioberti, Mazzini, Napoleone III, ti guidano
a Vittorio Emanuele. E nella parte opposta della stazione, dal Venti
Settembre a Castel Fidardo, da Castel Fidardo a Solferino, a Palestro,
a Goito, alla Cernaia, quei nomi ti conducono come per mano sulla
strada percorsa dalla rivoluzione italica, te ne narrano tutte le
geste, te ne cantano tutti i trionfi; quindi, giunto sulla piazza
della Indipendenza, tu ammiri finalmente l'ultima meta: La Indipendenza!
La Indipendenza! Ed io là ritto in mezzo a quella piazza, non
paranco bene rassettata, andava con me stesso meditando questa parola,
e confrontava il suo significato filologico, col significato che essa
piglia nella mente di quelli che l'hanno colà fatta esporre,
in grandi lettere, alla vista del pubblico. Nel pensiero di costoro,
indipendenza vuol dire:
togliti di lì, che mi ci metta io; vuol dire:
morte alla teocrazia! Morte ai tiranni,
che comandavano nel nome del vecchio Dio! Viva lo Stato! Il
dio nuovo, che fa quando gli talenta, senza l'impaccio di dover render
conto ai dogmi ed alla morale.
Ma lo Stato fu dio altra volta, quando sul colle Esquilino,
dove adesso sorge una parte della nuova Roma, abitava il carnefice
incaricato di fustigare e di crocifiggere nel sesterzio gli schiavi,
condannati al supplizio: Anche allora il dio Stato non rendeva
conto de' fatti suoi né ai dogmi, né a principi morali,
perché la sua divisa era questa. Sic
volo sic iubeo, stat pro ratione voluntas! Allora
nel suolo della nuova Roma si seppellivano alla rinfusa gli schiavi,
avuti in conto di bestie. E dei 900 mila abitanti, che Roma conteneva,
i due terzi erano schiavi, poiché il dio Stato vedeva nel servaggio
dei più la condizione necessaria della propria indipendenza.
Credo che, in materia di indipendenza, non si pensi molto diversamente
oggidì! Là concorrevano le maghe nel silenzio della
notte, a stracciare coi denti vittime eziandio umane, e del fegato
bollente di quelle componevano filtri amorosi, e per la virtù
del sangue versato in una fossa, evocavano i Mani, a scoprire le cose
nascoste, lontane e future. Così, fra gli altri, lasciò
scritto l'epicureo Orazio. Ma nemmeno oggidì
son rari, tra coloro cui dobbiamo la nuova Roma,
i fattucchieri e le streghe, che sotto nomi meno ignobili, rinnovano
quelle ignobilissime superstizioni, e posseggono l'anima di molti
epicurei moderni, atei e materialisti, che predicano l'indipendenza
del pensiero e del cuore.
Roma papale aveva cancellato
i delitti di Roma pagana, col sangue dei suoi martiri e colle santificazioni
dei suoi sacramenti; nel fuoco della carità aveva disciolti
i ceppi della schiavitù; aveva sfrantumata la statolatria e
fondata la verace indipendenza dei popoli, sul principio della paternità
divina! Indipendenza! Indipendenza, e intanto siamo tutti schiavi.
La Chiesa schiava dello Stato, lo Stato schiavo
dei ministri pro tempore, i ministri schiavi delle fazioni, le fazioni
schiave delle logge massoniche, le logge schiave di Satana, tutti
schiavi del mal costume, dell'empietà, della rapina, della
violenza, della miseria, della fame!»