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Palestina: quali prospettive?
di Bertrand Badie

      Conferenza tenuta mercoledì 19 gennaio 2004 all'Istituto di Studi Politici da Bertrand Badie (1), professore presso Scienze PO di Parigi, e registrata da Silvia Cattori.
       M. Badie è intervenuto su invito degli studenti palestinesi in Francia (associazioni Adala e GUPS).
       Vista l'originalità, la pertinenza e soprattutto la serietà dell'esposizione, abbiamo voluto portarla a conoscenza di un vasto pubblico. Ringraziamo il Prof. Badie di avercene dato l'autorizzazione.

Silvia Cattori, 3 febbraio 2005

(1) M. Badie è l'autore, tra l’altro, di Lo stato importato (1992), La Fine dei territori (1995), Un mondo senza sovranità (1992), La Diplomazia dei diritti dell'uomo (2002) Impotenza del potere. Prova sulle nuove relazioni internazionali (2004) Edizioni Fayard.

Grassetti, colori, parentesi quadre, sottolineature
e quanto scritto nello spazio giallo sono della Redazione

       Questo conflitto non è paragonabile agli altri. Non si tratta di un conflitto tra due Stati. È il conflitto di un Stato contro un popolo, di un potere instituzionalizzato, economicamente forte, contro attori sociali, amplissimamente sguarniti.

       È uno degli ultimi conflitti coloniali. Un conflitto in cui l'eccezionalità dell'occupante è quella di non avere una metropoli lontana. Il colonizzatore è lo Stato d'Israele. Esso ha annesso il 78% del territorio. Ai colonizzati ha lasciato di fatto solo il 22%.

       Tutti giocano su questa ambiguità. La situazione è aggravata dall'asimmetria. La bi-polarità aveva dato alla Palestina una parvenza di potere. La scomparsa della bi-polarità ha allentato i rapporti tra i Palestinesi e gli Stati arabi.
       Gli Stati arabi garantivano una parvenza di potere al movimento palestinese. Oggi, non c’è più una superpotenza per sostenere i Palestinesi. L'Europa si allontana dal campo medio-orientale con la fine della bi-polarità.
       La cosa grave che mi preoccupa è questa scomparsa di un potere equilibrato. I Palestinesi si ritrovano orfani di Potere, condannati a sparire dal classico gioco internazionale, obbligati dunque a rifugiarsi in forme nuove e pericolose di violenza        Questo fenomeno, che credo evidente e facile da osservare, è negato dal sistema internazionale, il che lo aggrava. E questo è qualche cosa che mi colpisce molto quando si studia la diplomazia mondiale a proposito del conflitto israelo-palestinese. [Mi colpisce] vedere che questa asimmetria fondamentale, che abbiamo bisogno di avere di fronte a noi per comprendere questo conflitto, è negata dalla comunità internazionale. È negata in due modi.
       Primariamente con la dinamica della Comunità internazionale che mira sempre ad introdurre questa falsa simmetria.
       Fate questo discorso che mi stupisce molto quando si parla della crisi del conflitto israelo-palestinese e che consiste nel dire: occorre che ciascuno dia prova di buona volontà. Occorre che ciascuno metta del suo. Occorre che ciascuno faccia un passo verso l'altro. Occorre da una parte che Israele sia più moderato, ma occorre anche che i Palestinesi rinuncino alla violenza.
       Cioè tutto il gioco diplomatico internazionale, negli Stati Uniti, ma anche in Europa come all'interno delle Nazioni Unite, consiste nella proclamazione di questa simmetria, che ciascuno metta del suo, che ciascuno faccia un passo verso l'altro!
       Ora, precisamente, ciò che vorrei dire, è che in questa situazione asimmetrica, in questa situazione che priva i Palestinesi del potere, che priva il movimento palestinese del potere, questa simmetria non ha alcun senso.
       Nella grammatica delle relazioni internazionali, se mi permettete l'espressione, non si può chiedere la stessa cosa ad un Stato e ad uno non-Stato. Non si può chiedere la stessa cosa a qualcuno che ha tutto ed a qualcuno che non ha niente. E questo è straordinariamente pericoloso. Perché, vi ritornerò, è fonte di violenza, di radicalizzazione della violenza, il che è molto preoccupante.

       Il secondo sintomo della negazione da parte del sistema internazionale dell'asimmetria di potere di cui è vittima il movimento palestinese, è la sospensione del multilateralismo.
       Tutto accade come se il gioco multilaterale fosse fatto per tutti, salvo che per lo Stato d'Israele. Tutto accade come se ci fosse un articolo segreto della carta delle Nazioni Unite che dispensa uno Stato membro delle NU dall'obbligo di rispettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza.
       Questa sospensione del multilateralismo, in un contesto dove precisamente il solo modo di uscire da questa aporia dell'impotenza è avere il sostegno del multilateralismo, la sola possibilità della comunità internazionale di equilibrare questo deficit di potere è precisamente la reintroduzione del multilateralismo.
       Si è in una situazione di blocco completo. Blocco che si vede tanto attraverso la capacità di veto che hanno gli Stati Uniti o questo formidabile isolamento degli Stati Uniti, lo si è visto ancora recentemente, che è fiancheggiato dalla Micronesia e da Paanao all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ma che anche in questo caso non ha nessuno significato perché quei voti dell'AG non hanno effetto esecutivo. La qual cosa è un grosso problema.

       C'è un altro problema che vedo presentarsi nell'evoluzione della geo-politica, questo è la crisi montante del nazionalismo. Bisogna constatare che uno dei contrafforti dell'esistenza passata del Movimento palestinese, è ugualmente l'arma del nazionalismo; era ugualmente la grande epoca del nazionalismo arabo che mobilitava, strutturava la géo-politica regionale.
       Bisogna notare che i veri pilastri solidi dell'ordine vicino-orientale negli anni cinquanta e sessanta era il nazionalismo. Esso strutturava i regimi, mobilitava gli individui.
       Ora si è entrati in un altro mondo nel quale il nazionalismo perde la sua credibilità. C'è una regressione del nazionalismo nel mondo, un non bisogno di svilupparlo, è qualcosa di conosciuto, ma le cuiconseguenze non sono sufficientemente prese in considerazione.
       Cioè, nel momento in cui il nazionalismo non mobilita più, non bisogna stupirsi che le diplomazie di stato nel mondo arabo fanno fatica a definire la loro posizione rispetto al problema palestinese e che è anche ugualmente difficile per il movimento palestinese costruire o ricostruire la sua identità.
       
Direi anche che il nazionalismo palestinese, diventato un’aporia in seguito all'insuccesso del processo di Oslo, segnatamente porta poco a poco a dare un sovrappremio a quelli che giocano altre carte, diverse dal nazionalismo, e ovviamente qui appare il compenso del nazionalismo costituito dall'identitarismo e, in pratica, dalla crescita dei movimenti di tipo islamico.
       Altro parametro che dobbiamo prendere in conto, è infatti lo straordinario pericolo che costituisce direi, non il processo di Oslo, ma direi il processo dell’insuccesso di Oslo. C'è il fatto che questo processo di Oslo, nel quale io non credevo fin da 1993, è apparso finalmente come straordinariamente costoso, per una ragione che è molto importante: è che Oslo aveva segnato un inizio di istituzionalizzazione del movimento palestinese con la creazione dell'Autorità palestinese e che l'insuccesso di Oslo ha evidenziato qualche cosa di cui il movimento palestinese non aveva bisogno. Cioè un processo di desinstituzionalizzazione.
       Il movimento palestinese, il mondo palestinese, il popolo palestinese -vedete talvolta esito pure a trovare la parola giusta- si trova vittima degli effetti perversi del processo di istituzionalizzazione. Questo è qualche cosa di molto conosciuto dalla scienza politica. Non voglio fare il pedante, ma la scienza politica vi spiega che a partire dal momento in cui una società si desinstituzionalizza che diventa? Diventa una folla. Una società meno istituzione uguale folla.
       
Il fenomeno è molto pericoloso. Un popolo abbandonato a se stesso che è alla ricerca della sua emancipazione e della sua libertà affronta dei rischi, produce violenza, è certo.
       Ma un popolo che ha cominciato a rientrare nella logica istituzionale e che è vittima, che è colpito dalla desinstituzionalizzazione, conosce qualche cosa di molto più inquietante che è in pratica il passaggio allo stato di folla.
       
Quando voi siete una società, che vi si priva dell’istituzione, che vi si smantellano le istituzioni in modo sistematico, che si fa loro perdere la credibilità, il loro significato nazionale o internazionale, si entra in una logica di folla. Questa logica di folla non è compensable che, proprio, con l'identitarismo. E anche là è di nuovo il nazionalismo palestinese che ne viene indebolito a vantaggio dei movimenti di ispirazione fondamentalista.

        Primo punto.
       Finisco con un ultimo parametro. Ciò che ho descritto in termini, vogliate scusarmene, piuttosto pessimisti ed preoccupati, finisce nello scoprire attualmente due tendenze.
        Tutto ciò che ho qui esposto in modo un po’ schematico e breve tende a presentare in maniera ahimè banale, qualche cosa che è sempre meno violenza politica e sempre più violenza sociale. Cioè una violenza che è sempre più difficile da inquadrare, da istituzionalizzare, da organizzare.
       La violenza politica è una violenza che è pensata da un'organizzazione politica a fini politici. Questa può essere la violenza di uno Stato contro un altro Stato, una classica guerra fra Stati . Ma questa può essere anche la violenza condotta da un'organizzazione di liberazione per emanciparsi da un dominio.
       La violenza sociale è altra cosa. È una violenza che si produce in un contesto di desinstituzionalizzazione, di perdita di capacità delle organizzazioni.
       
Dunque la violenza sociale è qualche cosa di individuale, è qualche cosa di non controllabile, è qualche cosa di non dominabile. Qualche cosa che è legata intimamente ad un certo numero di fattori che il sociologo Durkheim ha saputo studiare: l'umiliazione, la frustrazione.
       
L'umiliazione e la frustrazione creano una mancanza di integrazione sociale; la mancanza di integrazione sociale prodotto della violenza sociale, ciò che Durkheim chiama l'anomia.
Ahimè, siamo a questo punto.
       Se cito Durkheim, non è per caso. Ha scritto un libro a proposito degli effetti della violenza sociale e nazionale ed a proposito del violenza anomica: è il suicidio.
       Infatti questa scoperta del suicidio come strumento di azione violenta va completamente nel senso di una violenza che non è più allo stadio politico ma allo stadio della produzione sociale. È qualche cosa che io considero come pericolosissima, perché non è indirizzabile né dominabile.

       Altro punto.
       È follia rispondere a questa violenza sociale montante con le pulsioni del potere e con la coercizione. Ecco dove siamo. Cioè da un lato lo Stato, di fronte il non-Stato e la desinstituzionalizzasione. Dal lato della desinstituzionalizzazione, una violenza sociale alla quale si risponde con potere e coercizione. Questo mi porta a due constatazioni per concludere.
       Primariamente non si è visto mai nella storia del mondo un potere che riesce a fermare la violenza sociale. Ciò non è mai accaduto . Non è possibile. È un'equazione impossibile. Mi permetto di portare molto modestamente le mie conoscenze di sociologo per dirvi: Sig. Sharon, non vi riuscite, non è possibile. L'idea che si possanono utilizzare gli strumenti di coercizione per contenere una violenza sociale, essa stessa prodotta dall'umiliazione e dalla frustrazione, è qualche cosa d’impossibile
       Secondariamente. Tre volte ahimè, attualmente uno dei parametri più penosi del conflitto: il potere come è dispiegato dallo stato dell'Israele funziona a breve termine. Perché? Perché i territori sottomessi al controllo del potere e della coercizione sono discontinui e dunque tecnicamente controllabili a breve termine.
       Ci si accorge che Israele è più protetto di ieri a breve termine. Ci si accorge che nella sua configurazione lo Stato d'Israele si trova protetto dagli effetti della violenza, oggi più di ieri. È vero che a breve termine ciò funziona sufficientemente per produrre l'illusione del potere, per essere rieletto e, in tutti i casi, per vendere sicurezza ad un elettorato e ad una popolazione credulona. Ma a medio ed a lungo termine ciò non può funzionare. A medio e a lungo termine questa violenza sociale molto congiunturalmente contenuta, si aggrava, si rinforza e, ciò che temo, è che da questo effetto di rafforzamento e di non compassione nasca ancora qualche cosa di ben più terribile.

       Allora la mia conclusione è dire:
       bene, queste elezioni, questo discorso, questa scommessa che può essere una scommessa coraggiosa di Mahmoud Abbas, quella di dire che si sta rinunciando alla violenza e che, sulla base di questa rinuncia, si sta riannodando il filo del dialogo, mi piacerebbe molto crederlo. Ma sono scettico per le ragioni che ho avanzato e sono scettico anche per il fatto che in questa situazione di asimmetria in cui si trova, il popolo palestinese senza violenza è in una situazione di totale debolezza.

       Di fronte ad esso vi si spiega che non è questione di cambiare checcessia. E, se non è questione di cambiamento, ciò che si vuol fare è creare un contesto nel quale il rifiuto di cambiare riceva almeno l'adesione tacita e pacifica dell'avversario; è ugualmente un'atrocissima equazione.

       Scusatemi per queste conclusioni che non suscitano ottimismo.

Bertrand Badie .

 

 

 

   

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