Questo conflitto
non è paragonabile agli altri. Non si tratta
di un conflitto tra due Stati. È il conflitto di un Stato contro
un popolo, di un potere instituzionalizzato, economicamente
forte, contro attori sociali, amplissimamente sguarniti.
È uno degli ultimi
conflitti coloniali. Un conflitto in cui l'eccezionalità dell'occupante
è quella di non avere una metropoli lontana. Il
colonizzatore è lo Stato d'Israele. Esso ha annesso il 78% del
territorio. Ai colonizzati ha lasciato di fatto solo il 22%.
Tutti giocano
su questa ambiguità. La situazione è aggravata dall'asimmetria.
La bi-polarità aveva dato alla Palestina una parvenza di potere.
La scomparsa della bi-polarità ha allentato i rapporti tra i
Palestinesi e gli Stati arabi.
Gli Stati arabi garantivano
una parvenza di potere al movimento palestinese. Oggi, non cè
più una superpotenza per sostenere i Palestinesi. L'Europa si
allontana dal campo medio-orientale con la fine della bi-polarità.
La cosa grave che mi preoccupa
è questa scomparsa di un potere equilibrato. I Palestinesi si
ritrovano orfani di Potere, condannati a sparire dal classico gioco
internazionale, obbligati dunque a rifugiarsi in forme nuove e pericolose
di violenza Questo fenomeno,
che credo evidente e facile da osservare, è negato dal sistema
internazionale, il che lo aggrava. E questo è qualche cosa che
mi colpisce molto quando si studia la diplomazia mondiale a proposito
del conflitto israelo-palestinese. [Mi colpisce] vedere che questa asimmetria
fondamentale, che abbiamo bisogno di avere di fronte a noi per comprendere
questo conflitto, è negata dalla comunità internazionale.
È negata in due modi.
Primariamente con la dinamica
della Comunità internazionale che mira sempre ad introdurre questa
falsa simmetria.
Fate questo discorso che mi
stupisce molto quando si parla della crisi del conflitto israelo-palestinese
e che consiste nel dire: occorre che ciascuno dia prova di buona volontà.
Occorre che ciascuno metta del suo. Occorre che ciascuno faccia un passo
verso l'altro. Occorre da una parte che Israele sia più moderato,
ma occorre anche che i Palestinesi rinuncino alla violenza.
Cioè tutto il gioco
diplomatico internazionale, negli Stati Uniti, ma anche in Europa come
all'interno delle Nazioni Unite, consiste nella proclamazione di questa
simmetria, che ciascuno metta del suo, che ciascuno faccia un passo
verso l'altro!
Ora, precisamente, ciò
che vorrei dire, è che in questa situazione asimmetrica, in questa
situazione che priva i Palestinesi del potere, che priva il movimento
palestinese del potere, questa simmetria non ha alcun senso.
Nella grammatica delle relazioni
internazionali, se mi permettete l'espressione, non si può chiedere
la stessa cosa ad un Stato e ad uno non-Stato. Non
si può chiedere la stessa cosa a qualcuno che ha tutto ed a qualcuno
che non ha niente. E questo è straordinariamente pericoloso.
Perché, vi ritornerò, è fonte di violenza, di radicalizzazione
della violenza, il che è molto preoccupante.
Il secondo
sintomo della negazione da parte del sistema internazionale dell'asimmetria
di potere di cui è vittima il movimento palestinese, è
la sospensione del multilateralismo.
Tutto accade come se il gioco
multilaterale fosse fatto per tutti, salvo che per lo Stato d'Israele.
Tutto accade come se ci fosse un articolo
segreto della carta delle Nazioni Unite che dispensa uno Stato membro
delle NU dall'obbligo di rispettare le risoluzioni del Consiglio di
Sicurezza.
Questa sospensione del multilateralismo,
in un contesto dove precisamente il solo modo di uscire da questa aporia
dell'impotenza è avere il sostegno del multilateralismo, la sola
possibilità della comunità internazionale di equilibrare
questo deficit di potere è precisamente la reintroduzione del
multilateralismo.
Si è in una situazione
di blocco completo. Blocco che si vede tanto attraverso la capacità
di veto che hanno gli Stati Uniti o questo formidabile isolamento degli
Stati Uniti, lo si è visto ancora recentemente, che è
fiancheggiato dalla Micronesia e da Paanao all'Assemblea Generale delle
Nazioni Unite, ma che anche in questo caso non ha nessuno significato
perché quei voti dell'AG non hanno effetto esecutivo. La qual
cosa è un grosso problema.
C'è
un altro problema che vedo presentarsi nell'evoluzione della geo-politica,
questo è la crisi montante del nazionalismo. Bisogna constatare
che uno dei contrafforti dell'esistenza passata del Movimento palestinese,
è ugualmente l'arma del nazionalismo; era ugualmente la grande
epoca del nazionalismo arabo che mobilitava, strutturava la géo-politica
regionale.
Bisogna notare che i veri
pilastri solidi dell'ordine vicino-orientale negli anni cinquanta e
sessanta era il nazionalismo. Esso strutturava i regimi, mobilitava
gli individui.
Ora si è entrati in
un altro mondo nel quale il nazionalismo perde la sua credibilità.
C'è una regressione del nazionalismo nel mondo, un non bisogno
di svilupparlo, è qualcosa di conosciuto, ma le cuiconseguenze
non sono sufficientemente prese in considerazione.
Cioè,
nel momento in cui il nazionalismo non mobilita più, non bisogna
stupirsi che le diplomazie di stato nel mondo arabo fanno fatica a definire
la loro posizione rispetto al problema palestinese e che è anche
ugualmente difficile per il movimento palestinese costruire o ricostruire
la sua identità.
Direi anche che
il nazionalismo palestinese, diventato unaporia in seguito all'insuccesso
del processo di Oslo, segnatamente porta poco a poco a dare un sovrappremio
a quelli che giocano altre carte, diverse dal nazionalismo, e ovviamente
qui appare il compenso del nazionalismo costituito dall'identitarismo
e, in pratica, dalla crescita dei movimenti di tipo islamico.
Altro parametro che dobbiamo
prendere in conto, è infatti lo straordinario pericolo che costituisce
direi, non il processo di Oslo, ma direi il processo dellinsuccesso
di Oslo. C'è il fatto che questo processo di Oslo, nel quale
io non credevo fin da 1993, è apparso finalmente come straordinariamente
costoso, per una ragione che è molto importante: è che
Oslo aveva segnato un inizio di istituzionalizzazione del movimento
palestinese con la creazione dell'Autorità palestinese e che
l'insuccesso di Oslo ha evidenziato qualche cosa di cui il movimento
palestinese non aveva bisogno. Cioè un processo di desinstituzionalizzazione.
Il movimento palestinese,
il mondo palestinese, il popolo palestinese -vedete
talvolta esito pure a trovare la parola giusta-
si trova vittima degli effetti perversi del processo di istituzionalizzazione.
Questo è qualche cosa di molto conosciuto dalla scienza politica.
Non voglio fare il pedante, ma la scienza politica vi spiega che a partire
dal momento in cui una società
si desinstituzionalizza che diventa? Diventa
una folla. Una società meno istituzione uguale folla.
Il fenomeno è
molto pericoloso. Un popolo abbandonato a se stesso che è alla
ricerca della sua emancipazione e della sua libertà affronta
dei rischi, produce violenza, è certo.
Ma un
popolo che ha cominciato a rientrare nella logica istituzionale
e che è vittima, che è
colpito dalla desinstituzionalizzazione, conosce qualche cosa di molto
più inquietante che è in pratica il passaggio allo stato
di folla.
Quando voi siete
una società, che vi si priva dellistituzione, che vi si
smantellano le istituzioni in modo sistematico, che si fa loro perdere
la credibilità, il loro significato nazionale o internazionale,
si entra in una logica di folla. Questa logica di folla non è
compensable che, proprio, con l'identitarismo. E anche là è
di nuovo il nazionalismo palestinese che ne viene indebolito a vantaggio
dei movimenti di ispirazione fondamentalista.
Primo punto.
Finisco con un ultimo parametro.
Ciò che ho descritto in termini, vogliate scusarmene, piuttosto
pessimisti ed preoccupati, finisce nello scoprire attualmente due tendenze.
Tutto ciò che ho qui
esposto in modo un po schematico e breve tende a presentare in
maniera ahimè banale, qualche cosa che è sempre
meno violenza politica e sempre più violenza sociale.
Cioè una violenza che è sempre più difficile da
inquadrare, da istituzionalizzare, da organizzare.
La violenza politica è
una violenza che è pensata da un'organizzazione politica a fini
politici. Questa può essere la violenza di uno Stato contro un
altro Stato, una classica guerra fra Stati . Ma questa può essere
anche la violenza condotta da un'organizzazione di liberazione per emanciparsi
da un dominio.
La
violenza sociale è altra cosa. È una violenza che si produce
in un contesto di desinstituzionalizzazione, di perdita di capacità
delle organizzazioni.
Dunque la violenza
sociale è qualche cosa di individuale, è qualche cosa
di non controllabile, è qualche cosa di non dominabile. Qualche
cosa che è legata intimamente ad un certo numero di fattori che
il sociologo Durkheim ha saputo studiare: l'umiliazione,
la frustrazione.
L'umiliazione e la
frustrazione creano una mancanza di integrazione sociale; la mancanza
di integrazione sociale prodotto della violenza sociale, ciò
che Durkheim chiama l'anomia. Ahimè, siamo a questo punto.
Se cito Durkheim, non è
per caso. Ha scritto un libro a proposito degli effetti della violenza
sociale e nazionale ed a proposito del violenza anomica: è il
suicidio.
Infatti questa scoperta del
suicidio come strumento di azione violenta va completamente nel senso
di una violenza che non è più allo stadio politico ma
allo stadio della produzione sociale. È qualche cosa che io considero
come pericolosissima, perché non è indirizzabile né
dominabile.
Altro punto.
È
follia rispondere a questa violenza sociale montante con le pulsioni
del potere e con la coercizione. Ecco dove siamo.
Cioè da un lato lo Stato, di fronte il non-Stato e la desinstituzionalizzasione.
Dal lato della desinstituzionalizzazione, una violenza sociale alla
quale si risponde con potere e coercizione. Questo mi porta a due constatazioni
per concludere.
Primariamente non
si è visto mai nella storia del mondo un potere che riesce a
fermare la violenza sociale. Ciò non è mai
accaduto . Non è possibile. È un'equazione impossibile.
Mi permetto di portare molto modestamente le mie conoscenze di sociologo
per dirvi: Sig. Sharon, non vi riuscite, non è possibile. L'idea
che si possanono utilizzare gli strumenti di coercizione per contenere
una violenza sociale, essa stessa prodotta dall'umiliazione e dalla
frustrazione, è qualche cosa dimpossibile
Secondariamente. Tre volte
ahimè, attualmente uno dei parametri più penosi del conflitto:
il potere come è dispiegato dallo stato
dell'Israele funziona a breve termine. Perché? Perché
i territori sottomessi al controllo del potere e della coercizione sono
discontinui e dunque tecnicamente controllabili a breve termine.
Ci si accorge che Israele
è più protetto di ieri a breve termine. Ci si accorge
che nella sua configurazione lo Stato d'Israele si trova protetto dagli
effetti della violenza, oggi più di ieri. È vero che a
breve termine ciò funziona sufficientemente per produrre l'illusione
del potere, per essere rieletto e, in tutti i casi, per vendere sicurezza
ad un elettorato e ad una popolazione credulona. Ma a medio ed a lungo
termine ciò non può funzionare. A medio e a lungo termine
questa violenza sociale molto congiunturalmente contenuta, si aggrava,
si rinforza e, ciò che temo, è che da questo effetto di
rafforzamento e di non compassione nasca ancora qualche cosa di ben
più terribile.
Allora la
mia conclusione è dire:
bene, queste elezioni, questo
discorso, questa scommessa che può essere una scommessa coraggiosa
di Mahmoud Abbas, quella di dire che si sta rinunciando alla violenza
e che, sulla base di questa rinuncia, si sta riannodando il filo del
dialogo, mi piacerebbe molto crederlo. Ma sono scettico per le ragioni
che ho avanzato e sono scettico anche per il fatto che in questa situazione
di asimmetria in cui si trova, il popolo palestinese senza violenza
è in una situazione di totale debolezza.
Di fronte
ad esso vi si spiega che non è questione di cambiare checcessia.
E, se non è questione di cambiamento, ciò che si vuol
fare è creare un contesto nel quale il rifiuto di cambiare riceva
almeno l'adesione tacita e pacifica dell'avversario; è ugualmente
un'atrocissima equazione.
Scusatemi
per queste conclusioni che non suscitano ottimismo.
Bertrand Badie .
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