INVIATO A LONDRA - La polemica è durissima, e destinata a lasciare il segno, forse anche per il momento in cui cade. Nei giorni più difficili del conflitto israelo-palestinese, un gruppo di famosi intellettuali ebrei inglesi, con una lettera aperta al Guardian, ha preso le distanze dall'establishment della propria comunità, scrivendo che il sostegno a Israele non può essere messo al di sopra dei diritti umani dei palestinesi.
L'iniziativa è caduta non solo nel momento di maggiore incomunicabilità tra le due parti in lotta in Medio Oriente, ma anche di sofferenza interna nei due campi: con Israele che vede inquisito il presidente della Repubblica Katsav, con l'accusa di molestie sessuali a una sua collaboratrice, e il premier Olmert lambito da un'ipotesi di corruzione. E i palestinesi a un passo dalla guerra civile, con il presidente Abu Mazen che perde giorno dopo giorno il controllo della situazione.
È su questo sfondo che è maturata la lettera dei centotrenta intellettuali, i principali firmatari della quale sono personalità molto note della cultura, dell'arte e dell'università, in gran parte schierate a sinistra. Per citare solo i più famosi, nomi come Harold Pinter, poeta, attore, regista da sempre molto impegnato politicamente; o Stephen Fry, attore, regista e autore di testi teatrali e cinematografici che in un'intervista con Michael Parkinson fu definito «uomo con un cervello grande come il Kent», o Mike Leigh, altro famoso regista. Donne come la scrittrice Jenny Diski, o la stilista Nicole Fahri, che ha fatto della sua boutique, dentro cui c'è un ristorante molto trendy, un luogo di incontri culturali, o la psicanalista Susie Orbach, studiosa del mondo femminile e femminista. Su tutti, spicca il nome di Eric Hobsbawm, storico noto in tutta Europa anche per i suoi saggi sulla mafia.
«La nostra comune convinzione è che un largo spettro di opinione pubblica all'interno della popolazione ebrea di questo Paese non si riconosca in quelle istituzioni che pretendono di rappresentare la comunità ebraica tutta insieme», hanno scritto nella lettera al sito Internet del Guardian, su cui s'è aperto il dibattito. «I leader ebrei mettono il sostegno alle politiche di un Paese occupante al di sopra dei diritti umani di un Paese occupato», continua il testo. Ma queste due affermazioni sono bastate ad aprire un fronte polemico arroventato.
La lettera degli intellettuali infatti non precisa a quali istituzioni si riferisce. Ma uno dei firmatari, Brian Klug, filosofo e professore a Oxford, in un altro articolo che entra nel dibattito, punta sul Board delle Delegazioni ebree inglesi, «che si autodefinisce la voce degli ebrei mentre dedica gran parte del suo tempo e delle sue risorse alla difesa di Israele». Klug critica anche il rabbino capo d'Inghilterra, sir Jonathan Sacks, per aver detto durante una manifestazione a Londra l'anno scorso «Israele ci rendi orgogliosi», mentre «altri», sostiene il filosofo di Oxford, «avvertono un sentimento opposto».
L'obiettivo del gruppo di ebrei inglesi della Diaspora, che si è autodefinito «una rete di individui» e s'è dotato di un proprio sito web, è chiarissimo: rivendicare il diritto di criticare la politica dell'attuale governo israeliano, sapendo che questo potrà prestarsi ad accuse di antisemitismo, ma sostenendo che i due piani, quello della libertà di critica, e quello dell'appoggio al diritto di Israele di esistere, vanno distinti. Allo stesso modo, prosegue il ragionamento, non va fraintesa la denuncia delle violazioni dei diritti umani della popolazione palestinese.
Quanto sia difficile, nel momento attuale, fare distinzioni come queste, è emerso dal rapido infuocarsi della polemica, un primo assaggio della quale si era avuta già nei giorni della guerra in Libano. In quell'occasione si era praticamente sfiorata la rissa, con le dimissioni dei membri del Board del prestigioso Istituto ebreo di ricerche politiche (IJPR), a causa della presa di posizione del direttore dell'Istituto Antony Lerman, schieratosi a favore di una soluzione federativa, con eguali diritti per i due popoli, nei territori occupati, e per una revoca del principio che dà ad ogni ebreo della Diaspora il diritto al riconoscimento della cittadinanza israeliana.
Tra quelle dei membri del Board, la reazione senz'altro più dura era stata quella di sir Stanley Kalms, vicepresidente onorario dell'Istituto fino al momento in cui ha sbattuto la porta, ed ex capo di Dixon group, uno dei maggiori gruppi elettronici inglesi, oltre che eminente personalità della comunità ebraica inglese e professore nelle università di Londra Nord e di Buckingham. Dopo aver definito «insostenibile» la posizione di Lerman, in un articolo per il Jewish Chronicle sir Kalms aveva rincarato la dose, giudicandola «pericolosa e insostenibile» e contraria alla sua concezione del ruolo degli ebrei della Diaspora «di sostenere lo Stato di Israele nel bene e nel male, in tutto e per tutto». Sul Chronicle, pagine e pagine di lettere, seguite da una risposta del direttore David Rowan, non erano riuscite a portare il dibattito a un punto di approdo condiviso.
Del resto anche in Usa, e proprio nelle stesse settimane, la comunità ebraica è percorsa da tensioni dello stesso genere. L'American Jewish Committee ha accusato lo storico Tony Judt «di fomentare l'antisemitismo interrogandosi sul diritto di Israele di esistere». Replica di Judt, che non arretra di un passo: «Il link tra antisionismo e antisemitismo è stato ricreato. La combinazione tra i due può diventare tale da far sì che l'unico modo di non essere considerato antisemita diventi difendere la politica di Israele». Controreplica di Alvin Rosenfeld, direttore per trent'anni del più autorevole Programma di Studi ebraici in università americane, europee e israeliane, nominato da Bush al vertice del Museo dell'Olocausto di Washington: «Una delle più angoscianti caratteristiche del nuovo antisemitismo è che vi sono ebrei che vi prendono parte».
Marcello Sorgi
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