Audizione alla commissione
Affari Sociali della Camera
On.li
Deputati,
quanto
sento di dover dire nasce da un'esperienza di sala operatoria quasi
cinquantennale ed oltre ventennale di rianimazione e terapia intensiva
(ho contribuito alla nascita di tale servizio negli ospedali romani)
ed è condiviso da una larga fascia di colleghi operanti nel
settore.
Prego
la Commissione di non archiviare le mie osservazioni senza prime averle
considerate con attenzione, perché intendono aiutarla nel suo
ingrato ed arduo compito. Come esplicitamente richiesto, mi baso
esclusivamente su considerazioni mediche.
Alcuni punti mi rendono particolarmente perplesso, in primo
luogo la "morte " cerebrale.
C'è
da considerare al proposito che:
1) i
mezzi di cui disponiamo, e che sono previsti dalla legge, NON
ATTESTANO una morte, ma solo, in negativo, la nostra INCAPACITA' a rilevare
segni di talune attività cerebrali. Qui giova osservare
che le nostre conoscenze in proposito non ci permettono di affermare
con certezza neppure che si tratta di quelle più importanti.
Se poi quest'incapacità sia dovuta o no ai limiti dei nostri
mezzi di indagine, come è pur possibile, non viene tolto il fatto
che l'assenza di un'attività
cerebrale documentabile NON
È PROVA, ma, al massimo SOSPETTO
o, se vogliamo, PRESUNZIONE
di morte cerebrale, quale che sia il grado di probabilità
attribuibile a tale presunzione.
2) L'identità
morte cerebrale = morte sic et simpliciter della persona E' FALSA. Il
decerebrato è vivo, non vitale, ma vivo; non
è morto finché l'apparato cardiocircolatorio è
in grado di perfondere i vari tessuti. Non si possono fare
analogie con l'arresto cardiocircolatorio, le cui conseguenze comportano
danni irreversibili a tutte le strutture dell'organismo, in tempi relativamente
brevi (da alcuni minuti a poche ore). Chi accetta
quell'identità [morte cerebrale = morte], fa proprio quella scelta
filosofica frutto di "PREGIUDIZI" che vedo deprecata
da tutti i relatori.
Tutti
giustamente pongono l'accento sull'esigenza di "sensibilizzare
ed informare". Premesso che ogni tipo di trapianto esigerebbe una
discussione a sé, esiste una condizione necessaria per accettare
per non dire IMPORRE un'azione terapeutica: primum
non nocere: non mi risulta che l'esistenza di tale condizione sia
documentata a sufficienza nel caso dei trapianti.
Quanti
degli aspiranti riceventi di trapianto sono informati della reale precarietà
dell'esistenza della media di coloro che sono trapiantati con "successo
"?
e quanti
sono debitamente informati su quanto delle promesse fatte viene realmente
MANTENUTO?
Sono
stato troppo tempo spettatore (ed attore, ed autore ed oggetto) di pubblicazioni
scientifiche, da dentro l'ambiente, per ignorare che i risultati da
esse resi pubblici non si basano su tutto il "materiale" disponibile,
ma, troppo spesso, su una parte debitamente selezionata di esso. Chi
è del mestiere lo sa, e sa come leggere tra le righe, ma gli
altri?
Quanta
parte della popolazione sa che il trapiantato è nello stato immunologico
del malato di AIDS, con l'aggravante delle intossicazioni acute e croniche
da parte degli immunosoppressori?
Quanta
parte della popolazione sa che il trapiantato ha una frequenza
(con punte del 30% per alcuni organi) maggiore
rispetto al non trapiantato nello sviluppare CANCRI MALIGNI?
La prospettiva
di "anche un solo anno di vita normale in più" è
allettante, ma quanto reale? L'accertamento di tale evenienza dipende,
nel singolo malato, fra la sua vita SENZA e CON il trapianto, a partire
da quel dato momento. Ogni tentativo di dare risposte statistiche a
tale quesito, ha confermato ciò che ogni singolo medico ha sempre
saputo: NON E' POSSIBILE stabilire,
non dico con certezza - ovvio - ma nemmeno con
sufficiente sicurezza la speranza di vita di un dato paziente, a partire
da un dato momento. Senza contare
che uno studio recente (AM J Cardiol 1997, 80: 746- 750),
su circa 100 trapiantati, ha dimostrato
oltre un terzo di loro NON AVEVA REALE NECESSITA'
di dover subire tale intervento.
Una
campagna informativa capillare è realmente indispensabile, ma
per essere valida deve dar per certo tutto e solo quello che è
certo, le probabilità e le speranze, vanno presentate per ciò
che sono.
Procedere
come hanno fatto sinora i mass-media, ha tutta l'aria di vendita di
fumo.
Dobbiamo
ritenere che la pratica dei trapianti d'organo è ancora in FASE
SPERIMENTALE e, pertanto, è prematura la sua adozione routinaria
nella pratica clinica. E ciò almeno finché, condizione
necessaria e non sufficiente, non saranno date risposte medico-scientifiche
esaurienti agli interrogativi che ho fatto presenti.
In questa
prospettiva, conservare l'esigenza giuridica di un consenso espresso,
tanto all'espianto, quanto all'impianto, da parte degli interessati
o da chi per loro e prolungare il periodo di osservazione pre-espianto
secondo il giudizio del curante, non è per niente manifestazione
di tabù, ma solo atto di doveroso rispetto sia nei riguardi dei
pazienti, che si sono rivolti al medico sperando di essere aiutati a
vivere (che, del resto, è l'essenziale) sia della ricerca terapeutica
seria, che così si può svolgere nel campo suo proprio.
Ogni
altra decisione rivela un presupposto teoretico, che,
se imposto per legge è anti democratico.
Dottor Giuseppe Bartolini
Anestesista-rianimatore