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Lepanto, la Crociata di San Pio V
Lepanto 1571: la battaglia che salvÒ l’Europa

di Alessandro Ortezi

Fonte: la Padania del 7 ottobre 2004
Segnalato da: Centro Studi G. Federici

Grassetti, colori, parentesi quadre, sottolineature, corsivi
e quanto scritto nello spazio giallo sono generalmente della Redazion

PREMESSA

       Poitiers, Lepanto e Vienna. Tre grandi vittorie, splendide e sanguinose. Tre vittorie dell'Occidente, tre vittorie della Cristianità.
       Tre vittorie contro un mondo di volta in volta arabo o musulmano, ferocemente aggressivo, ma anche giovane, forte e spavaldo. Un mondo però che ogni volta, e proprio nel cuore dell'Europa, si è infranto contro il valore degli Europei, decisi a non cedere la propria terra fino all'estremo sacrificio.
      Europei ancora in possesso di amore per la propria terra, di Fede, di istituzioni politiche e religiose che non li avevano abbandonati, come da troppo tempo accade oggi.
      Istituzioni che li spronavano anzi, con Re, Papi e Imperatori.
      Un Europa, in tre epoche distanti tra loro anche mille anni, nella quale gli Europei accorsero volontariamente, popolo e signori, a difendere la propria civiltà e la propria Religione.
      Un'epoca nella quale la Cristianità non confondeva ancora la Carità, una virtù Teologale, con una solidarietà che ne è oggi la caricatura: rifugio sentimentale di chi è disposto a sacrificare la propria civiltà per un egoistico bisogno di apparir buono a sé stesso.
      Un'epoca nella quale gli intrighi politici, per quanto spietati e interessati come lo sono oggi, trovavano un limite in un sistema di valori superiori, di fronte ai quali ogni sacrificio veniva accettato con entusiasmo.
      L'Europa difendeva il suo modello di civiltà, si direbbe oggi. Sì, ma difendeva anche il suo sangue, le sue chiese, le sue monarchie e repubbliche.
      Forse non siamo meno coraggiosi dei nostri avi, auguriamocelo almeno. Ma abbiamo perso ogni riferimento a qualsiasi cosa di superiore, abbiamo smarrito il senso di appartenenza a un popolo, ne abbiamo smarrito il giusto orgoglio.
      Abbiamo smarrito il normale senso di vivere la religione, abituati da secoli di propaganda illuminista e peggio a ritenere la Fede un relitto del Medioevo.
      Né siamo più capaci di pensarci membri di una comunità. Una vera comunità, con delle radici e una storia che abbiano plasmato noi e che ci vive accanto facendoci amare gli uni gli altri, perché questi riconosciamo simili a noi, perché in essi vediamo noi stessi, i nostri figli e i nostri genitori.
      L'Occidente di oggi conosce solo disanimate comunità indotte dall'ideologia, tanto più vaste quanto insulse, dove ognuno, prigioniero dell'incomunicabilità cui è costretto, si ripiega su sé stesso. Solo e individualista come la dimensione della vita al giorno d'oggi.
      Però abbiamo il libero mercato: la libertà di vendere e comprare qualunque cosa a chiunque e da chiunque. La libertà di dimenticare storia, tradizioni e religioni per costellare le nostre città di orribili negozi tutti uguali, di essere condannati a vedere i nostri soldi aumentare o diminuire di valore a seconda di quel che accade alla Borsa di New York, o Tokio o chissà dove.
      Abbiamo persino letto dei sacerdoti chiamare alla difesa d'Europa in nome della difesa del libero mercato.
      La battaglia dell'Occidente deve quindi essere una battaglia contro sé stesso o contro chi lo ha ridotto in questo modo. Bisogna riempire il vuoto delle nostre anime coi valori della Tradizione … l'Islam, oggi come oggi, è forte perché ha più valori di noi.
      Non si accorre a Poitiers, a Lepanto o sotto le mura di Vienna per il libero mercato, né per gli interessi delle multinazionali.
      Sono necessari coraggio e un amore tanto più profondo quanto più disinteressato. Carlo Martello, San Pio V, Prinz Eugen ne sono gli eroici simboli; ma dietro di sé, essi ebbero tutta la Fede e il Sangue della Nostra Europa.
      Per riempire i ranghi delle loro file servono questi valori.

 

LEPANTO 1571

       Fra i molti dipinti di Paolo Veronese che vi sono a Venezia nelle Gallerie dell'Accademia, ve n'è uno che raffigura, in alto, sopra una cortina di nuvole, San Pietro, San Rocco, Santa Giustina e San Marco che implorano la Vergine affinché conceda la vittoria alla flotta che è raffigurata al disotto, mentre combatte con delle navi turche, contro le quali un angelo lancia delle frecce incendiarie.
       Questo dipinto era un tempo a Murano, a sinistra dell'altare del Rosario nel Duomo e, dipinto probabilmente nel 1572, era un ex-voto, che Veronese dipinse per Pietro Giustinian, l'anziano membro del Maggior Consiglio che da quella battaglia era tornato vittorioso.
      La battaglia di Lepanto.
      430 anni orsono, all'alba del 7 di ottobre 1571, la flotta della Lega Cristiana entrava nel Golfo di Patrasso. Dopo 4 ore di furiosi combattimenti, di terribili corpo a corpo combattuti sui ponti delle imbarcazioni, le navi cattoliche avrebbero colto quella vittoria per la quale i turchi sarebbero stati esclusi per sempre dal Mediterraneo occidentale.
 

I TURCHI A CIPRO

       La guerra era stata dichiarata a Venezia dai Turchi all'inizio dell'anno precedente: ma all'intimazione di abbandonare Cipro, la Serenissima aveva risposto con un netto rifiuto.
       La resistenza veneziana, sotto il comando di Nicolò Dandolo, fu tenace, ma non fu possibile evitare lo sbarco e, nonostante le fortificazioni di Nicosia, ancora oggi visibili, fossero appena state innalzate, e la lunga ed eroica difesa sostenuta soprattutto da Romagnoli e Marchigiani, la città fu presa il 9 settembre 1570.
 

 

N HOC SIGNO VINCES

       La minaccia turca era stata chiaramente compresa in tutta la sua gravità da uno dei più grandi Papi che la storia della Chiesa ricordi: San Pio V.
       Egli si era messo all'opera già all'indomani della dichiarazione di guerra turca, e non tralasciò nulla per creare quell'alleanza di principi e uomini cristiani che sbarrò la strada agli Ottomani.
      Nacque così la prima Lega Cristiana a capo della quale il Papa pose il già famoso Marcantonio Colonna Duca di Paliano, che l'11 giugno 1570 ricevette dalle sue mani la nomina a Prefetto e Capitano Generale insieme con lo stendardo raffigurante sul fondo di Damasco rosso il Crocifisso tra gli apostoli Pietro e Paolo; in alto il motto In hoc signo vinces.
      Si trattava ora di convincere a soccorrere Venezia le altre potenze dell'epoca e in particolare Filippo II, i cui interessi fatalmente contrastavano con quelli di Venezia, che era di fatto l'unico stato libero della penisola. Egli possedeva infatti i reami di Na poli, Sicilia e Sardegna e controllava Genova, il Piemonte e la Toscana.
      Gli Interessi di Spagna e Venezia collidevano in particolare in Lombardia. Qui Milano, Lodi, Como e Pavia erano in mano a Filippo, mentre Bergamo e Brescia, con Vicenza e Verona, erano domini veneziani.
      Il Re di Spagna tratteneva così Toscana, Genova e il ducato di Savoia dall'intervenire.
      E' singolare che questo compito toccasse a un Papa che molto meno di tanti altri ebbe interesse a assumere impegni militari, a dimostrazione del fatto che quando la necessità lo impone, alla preghiera e al digiuno possono essere uniti i cannoni.
 

UN PAPA VOLUTO DA SAN CARLO

       Il conclave nel quale era stato eletto, che fu il capolavoro diplomatico di San Carlo Borromeo, ebbe luogo nel 1565, l'anno al quale si possono far risalire gli antefatti di Lepanto.
       Turchi e barbareschi si gettarono in quell'anno su Malta per scacciarne, come già avevano fatto da Rodi, i Cavalieri dell'Ordine Ospitaliero di San Giovanni in Gerusalemme, che avevano di recente ottenuto l'isola da Carlo V.
      500 navi e 50.000 uomini, tra giannizzeri della guardia e corsari di Dorghut Pascià, il leggendario corsaro che perse la vita decapitato da una palla di cannone, assalirono Malta. 700 Ospitalieri, sostenuti da una sprovveduta ma tenace popolazione, riuscirono a resistere fino all'arrivo delle navi spagnole che costrinsero i Turchi a togliere l'assedio.
      L'anno seguente però, Genova perdette l'isola di Chio: le chiare intenzioni ottomane erano a questo punto evidenti e l'attacco a Cipro ne fu la logica conseguenza.
      Pio V non risparmiò alcuna energia per dar vita a quella Lega che infine comprese, oltre naturalmente a Venezia, che sostenne anche lo sforzo maggiore, la Spagna di Filippo II, la Repubblica di Genova, il ducato di Savoia, gli Uomini Neri, come erano chiamati dai Turchi gli Ospitalieri di San Giovanni, e il Granducato di Toscana, con in particolare i Cavalieri del Sacro Militare Ordine Marittimo di Santo Stefano Papa e Martire.
 

 

UOMINI NERI CONTRO PIRATI

       L'ordine che era stato creato da Cosimo I de' Medici, proprio per combattere la pirateria nel Tirreno, è autore, in questo e nel secolo successivo, di straordinarie imprese in tutto il Mediterraneo. Infine Lucca, Mantova, Parma, Urbino e Ferrara.
       Il 5 agosto 1571 cadde l'ultimo baluardo veneziano a Cipro: Famagosta.
       Il generale Marcantonio Bragadin, che ne era capitano, l'aveva difesa disperatamente per mesi.
       Ingannato da Alì Pascià, che gli aveva concesso una resa con onore, una volta consegnata la città fu preso e gli furono mozzati naso e orecchie.
       Fu quindi torturato per 11 giorni e infine scuoiato vivo il 17 agosto, sulla Piazza di Famagosta, mentre la splendida cattedrale gotica di San Nicolò era trasformata in moschea.
       La sua pelle fu riempita di paglia e trasportata a Costantinopoli.
       L'urna che la contiene si trova a Venezia, nella Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, il Pantheon delle glorie della Serenissima, dove giunse nel 1596 dopo essere stata avventurosamente trafugata dall'arsenale di Costantinopoli.
 

 

LA CRISTIANITÀ TUTTA UNITA

       Le navi cristiane si riunivano nel frattempo a Messina. Erano 208 galere, vale a dire vascelli a remi e a vela armati con artiglieria pesante sulla piattaforma anteriore e leggera sui fianchi.


Galea veneziana

       Il grosso della flotta era costituito dalla squadra veneziana: 105 vascelli al comando del vecchio generale da mar Sebastiano Venier;
       quindi la squadra di Filippo II Re di Spagna, comandata da Gian Andrea Doria, con 81 navi di cui 14 spagnole;
       la squadra pontificia schierava 12 navi ed il suo generale Marcantonio Colonna Duca di Paliano era vice comandante dell'intero schieramento.
       Tre navi erano genovesi, tre dei Cavalieri di Malta e tre addirittura del Ducato di Savoia.
       Comandante generale era Don Giovanni d'Austria, fratello del Re di Spagna, che aveva ricevuto a Napoli dalla mani del Cardinal Granuela il bastone del comando e il nuovo stendardo: un ricco drappo di seta cremisina con l'immagine del Redentore in croce.
       Complessivamente 50.000 soldati, archibugieri e corsaletti, e 13.000 marinai.
       Fra loro anche corsi, tedeschi e 6000 valloni, l'eroico popolo pronto in ogni epoca a difendere l'Europa dai suoi nemici.
       Le forze cattoliche avevano soprattutto 1800 cannoni, i quali fecero la differenza coi 750 dei Turchi, poco superiori per il numero di navi e in grado di schierare un numero equivalente di uomini.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Don Giovanni d'Austria

DUE FLOTTE CONTRO

       Il 16 settembre l'Armata Cristiana usciva dal porto di Messina dirigendosi a Corfù. Qui ricevette la notizia che la flotta turca era entrata nel golfo di Lepanto.


       Si riprese il mare la notte sul 4 per fermarsi presso Cefalonia il 5. Trascorse il 6, finché verso le sette di sera la flotta turca uscì dal golfo.
       Le flotte si incontrarono all'imboccatura del golfo di Patrasso verso la prima ora di sole della domenica sette ottobre.
       Dopo mezzogiorno Doria girò il bordo al largo dando l'impressione di fuggire.
       Al tiro che gli fu rivolto rispose Don Giovanni col cannone di corsia accettando così la battaglia.
       Furono abbassate tutte le bandiere dei Principi e dei Capitani, tranne quella di Colonna, mentre la Reale spiegò il grande stendardo della Lega e quello della Beata Vergine.
       Don Giovanni percorse la linea della battaglia, quindi, suonate le trombe, si diede a danzare di gioia sul ponte della Reale. Intanto Gesuiti, Domenicani, Francescani e quanti Preti erano presenti sulle galee, benedicevano le armi cristiane. Più tardi molti di loro le avrebbero a propria volta furiosamente impugnate.
       I turchi si gettarono sulle navi cristiane mal governando l'artiglieria; intanto la capitana del Papa investì quella turca, mentre era a sua volta investita da quella del Pascià Pertaù.
       In un indescrivibile furore, mentre la battaglia pareva ormai più terrestre che navale, lo stendardo cristiano restavo intatto e non una sola freccia giungeva a lacerarlo.
       Don Giovanni e Colonna combatterono davanti a tutti per tre ore invadendo la reale turca.
       Infine giunsero 400 soldati freschi che irruppero per prua e per fianco.
       Alì Pascià fu ucciso, sterminati i giannizzeri e, scesa la mezzaluna, prendeva il vento lo stendardo di Gesù Crocifisso.
       All'ala sinistra era la squadra gialla, quella veneziana. Il loro valore si riassume in quello di Agostino Barbarigo che li capitanava. Ricevuta ben presto una freccia nell'occhio destro, non abbandonò il ponte, e tra i tormenti della ferita mortale continuò a dirigere le operazioni finché 54 delle 56 navi che lo avevano attaccato non furono prese. Scese allora dal ponte e, strappatasi di sua mano la freccia dall'occhio, dopo aver avuto notizia della vittoria, morì rendendo grazie a Dio.
       All'ala destra Andrea Doria continuava a rifiutare il combattimento.
       La galea Fiorenza e la San Giovanni del Papa lo abbandonarono e si volsero insieme contro il nemico sostenendo insieme alla squadra azzurra l'assalto di Uluds Alì.
       Numerosi morirono i cristiani ma le sorti generali della battaglia erano decise.
       La capitana di Malta fu presa da Alì, il Pascià calabrese di Algeri, che fece sgozzare sul ponte 36 cavalieri, mentre quasi tutti i Cavalieri di S. Stefano morirono sulla Fiorenza del Papa.
 

 

QUATTRO ORE DI FUOCO

       La battaglia era durata poco più di quattro ore. Erano morti 40.000 turchi e solo 25 galee furono salve. La potenza navale ottomana era finita per sempre.
       San Pio V, che aveva trascorso le ore della battaglia in preghiera dinanzi all'effigie della Madonna della Salute, nella Chiesa di S. Maria Maddalena, stabilì in segno di ringraziamento alla Vergine al 7 ottobre la festività di Santa Maria della Vittoria che fu estesa da Clemente XI a tutta la Cristianità e definitivamente fissata al 7 ottobre da Leone XIII.
 

  

PIO V, PAPA MILITE DELLA FEDE

       Il clima di grande santità nel quale Michele Ghislieri, nel 1566, fu eletto Papa, fu quello delle costituzioni emanate da Pio IV: esse prevedevano la clausura assoluta e i 53 cardinali elettori la rispettarono pienamente.
       Fu San Carlo Borromeo a perorare particolarmente l'elezione di questo cardinale domenicano, che era stato recentemente sollevato dall'incarico di Inquisitore generale. Dopo una parentesi come Vescovo di Mondovì, rimaneva a Roma, dove viveva solitario e penitente, allontanato dal Vaticano e malato al punto da essere prossimo a morire.        Antonio Ghislieri era nato a Bosco, nel Ducato di Savoia, nella diocesi di Tortona, il 17 gennaio 1504. Entrò nel convento domenicano di Vigevano a soli 14 anni, per entrare nell'Ordine dei Frati Predicatori col nome di Michele. Si recò quindi allo Studio di Bologna, la vera patria da dove la sua famiglia era stata esiliata tre generazioni prima, dove in breve divenne Lettore di Logica, Filosofia e Teologia.
       Ordinato a 24 anni, predicò numerose Quaresime nel Capitolo Provinciale della Lombardia.
       Fu quindi chiamato al duro ufficio di Inquisitore, dapprima a Pavia e quindi a Como, dove, scomunicato il Vicario e il Capitolo, fu aggredito e si salvò a stento.
       Inquisì ancora il Vescovo di Bergamo, ma non volle mai deporre l'abito domenicano per paura d'esser riconoscibile come inquisitore.        Giunse quindi a Roma come Commissario del Sant'Uffizio, rifiutò dapprima il vescovado, e fu eletto Cardinale col titolo di Santa Sabina e nome di Cardinale Alessandrino.
       Anche quando fu eletto Sommo Inquisitore perseverò con i consueti zelo e ostinazione, sempre vestito da frate tranne nelle occasioni pubbliche, quando vi era obbligato.
       Fu quindi acclamato come Sommo Pontefice, e incerto se accettare la tiara, gli fu miracolosamente suggerito di accettarla.
       I digiuni e la preghiera che gli erano abituali, si intensificarono.
       Si vestì degli abiti del Pontefice precedente, ma sempre con gli indumenti domenicani al di sotto.
       Dormiva solo alcune ore e su di un pagliericcio. Pellegrinava per le chiese di Roma, scalzo e a capo scoperto.
       Nel governo della Corte prescrisse la medesima austerità che usava con se stesso.
       Contro le eresie fu inflessibile e attivo: mandò milizie in Francia perché combattessero gli Ugonotti, e eventi miracolosi accompagnarono quelle lotte, scomunicò Elisabetta regina d'Inghilterra e prescrisse che gli Ebrei potessero risiedere esclusivamente a Roma.
       Aprì ancora numerose strade e costruì acquedotti, e insieme con le ordinanze per migliorare la moralità del popolo di Roma, istituì la Congregazione dell'Indice.
       Ma, oltre alla Lega Cristiana vittoriosa a Lepanto, applicando la riforma ecclesiastica secondo i canoni del Concilio di Trento, pubblicò nel 1568 quell'immutabile Missale Romanum, il più grande monumento che abbia lasciato, l'unico vero mezzo con cui celebrare il Sacrificio di Cristo.
       Morì il 1 maggio 1572, senza aver mai commesso un peccato mortale, come riportarono i suoi confessori. Beatificato da Clemente X, fu santificato nel 1710 da Clemente XI.

Alessandro Ortezi

 
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