"È stato un
massacro. Il mio battaglione era stato dispiegato in una zona periferica
di Baghdad. Qui avevamo allestito un posto di blocco. Gli ordini erano
precisi: sparare alle macchine che non si fossero fermate al nostro
segnale di alt. Nel giro di quarantotto ore abbiamo
ucciso trenta civili. Dentro
le loro automobili non abbiamo trovato nessuna arma. Abbiamo finito
il lavoro gettando i loro corpi in una fossa, come ci era stato ordinato
dai nostri superiori". Jimmy Massey parla con distacco
dell'inferno che ha visto e vissuto in prima persona in Iraq. Le sue
parole sono misurate, il tono della sua voce è calmo e piatto,
il suo sguardo molto spesso si abbassa a guardare le sue mani, mani
che hanno sparato e ucciso altri esseri umani.
Quando venne richiamato negli
Stati Uniti, nel dicembre del 2003, il sergente Massey del corpo dei
Marines venne colpito da una forte crisi depressiva. "Non ci
sono medicine per poter curare le ferite dell'anima: sono sfregi interiori
che rimarranno per sempre".
Jimmy
Massey, 33 anni, dodici dei quali spesi nell'Esercito, è giunto
a Toronto in occasione dell'inizio delle udienze presso l'Immigration
and Refugee Board di Jeremy Hinzman, il soldato americano che, dopo
essersi rifiutato di partire per l'Iraq, è fuggito dagli Stati
Uniti e sta cercando ora di ottenere asilo politico in Canada. Massey
porterà le sue esperienze vissute in Iraq di fronte alla commissione,
per ribadire che "la
guerra fatta dagli Stati Uniti è illegale e rifiutare di parteciparvi
è un diritto".
"Ho fatto parte del corpo
dei Marines per dodici anni", racconta l'ex soldato. "In questo
periodo ho avuto molti compiti, ho partecipato a varie missioni. Nell'inverno
del 2002, nella nostra base nel North Carolina, iniziammo un'esercitazione
specifica sulla guerriglia urbana che durò parecchie settimane.
Quindi la preparazione venne incentrata sulla chiusura e il sabotaggio
di pozzi petroliferi: nelle esercitazioni utilizzavamo le mappe di Ar
Rumaylah, una località meridionale dell'Iraq. Il 2 gennaio ricevetti
la telefonata dai miei superiori: sarei stato dislocato in Kuwait, in
una missione top secret".
"Arrivammo in Kuwait
il 22 gennaio. In tutto eravamo circa 1.200 marines. Qui iniziò
la nostra preparazione specifica per l'invasione dell'Iraq. A metà
febbraio 2003 eravamo pronti, aspettavamo da un giorno all'altro l'ordine
per iniziare l'attacco". Le operazioni di guerra partirono
il 22 marzo e Massey si trovò sin da subito in prima linea. "Non
ci furono grossi problemi", ricorda. "La resistenza
che ci trovammo di fronte era male armata, disorganizzata. I
vertici militari hanno parlato dell'uso di armi intelligenti, capaci
di centrare obiettivi specifici con grande precisione. In realtà
fin dall'inizio del conflitto l'esercito americano fece un largo utilizzo
di "cluster bomb" e bombe al napalm: era facile vedere civili
iracheni morti sui bordi delle strade, completamente dilaniati, sfigurati,
divorati dai vermi e dalle mosche".
Il
punto di vista di Massey sull'intervento in Iraq ha vissuto con il passare
dei mesi una parabola tipica di molti altri suoi commilitoni. Partito
dagli Stati Uniti con la convinzione "che l'Iraq avesse armi
di distruzione di massa e che il regime di Saddam andasse neutralizzato".
Con il passare delle settimane la sua posizione è radicalmente
cambiata.
"La
nostra avanzata verso nord procedeva senza troppi intoppi",
ricorda l'ex sergente. "Il mio battaglione fu assegnato alla
presa di Salman Pak, quello che secondo la stampa
americana doveva essere un campo d'addestramento per terroristi e che
in realtà era il centro dell'Intelligence irachena: la struttura
era occupata solamente da civili, ma questo lo scoprimmo
solamente in un secondo momento. Il blitz scattò di notte, entrammo
dentro e iniziammo a sparare all'impazzata, come "cowboy",
uccidendo chiunque vedessimo di fronte a noi".
"Nei
dintorni di Salman Pak, la mattina seguente, le mie convinzioni iniziarono
a vacillare. Ci stavamo riposando, io ero stremato, stavo cercando di
scaricare tutta l'adrenalina accumulata la notte precedente. Un uomo
iracheno mi venne incontro, con il figlio in braccio. Il bambino avrà
avuto non più di due anni. L'uomo si avvicinò e mi mise
in braccio il figlio. In quel momento realizzai l'assurdità di
quello che stavo facendo: l'umanità di quel gesto, fatto da uno
sconosciuto contro il nostro folle atteggiamento, mi aprì gli
occhi. Mi guardai allo specchio. Avevo il volto completamente sporco
di sabbia, il sudore che mi colava dalla fronte e le mani impastate
di sangue: ero un mostro, ero un demone e lo sarei stato per sempre".
Ma per il sergente Massey
il precipizio che porta dritto all'inferno non finì quel giorno.
"Con il passare delle settimane la situazione continuò
a peggiorare. Durante una manifestazione pacifica organizzata su un
ponte nella zona dell'aeroporto della Capitale sentimmo esplodere alcuni
colpi che passarono sopra le nostre teste: aprimmo
il fuoco sulla folla fino a quando non si mosse più nulla. Andammo
a controllare i cadaveri: erano tutti civili disarmati. Tra loro c'era
un bambino di sei anni, colpito da un proiettile in mezzo alla fronte.
Il giorno successivo, nel consueto briefing con la stampa, i vertici
militari definirono l'episodio come "un'azione contro un gruppo
di ribelli" e i media lo riportarono come tale. Ora la mia domanda
è questa: come si può definire quello che abbiamo fatto
come "un'azione contro dei ribelli"? Cosa ci farebbe un bambino
di sei anni in mezzo a dei terroristi? Il signor Bush può forse
darmi una risposta? Lo possono fare i vertici militari?".
Il giorno
successivo accadde un nuovo, sconvolgente episodio. "Eravamo
di turno in un posto di blocco su una autostrada, nella periferia di
Baghdad. Una Kia con quattro persone a bordo non si fermò al
nostro segnale di stop: aprimmo il fuoco contro i quattro occupanti.
Solo uno rimase ferito di striscio, gli altri tre morirono poco dopo.
Ho ancora di fronte l'immagine di questo uomo, la rabbia e la dignità
del suo volto: uscì dalla macchina con le mani in alto e si avvicinò
a noi. "Perché avete ucciso mio fratello? chiese
Cosa vi abbiamo fatto? Perché avete sparato?". Nessuno di
noi rispose, nessuno di noi avrebbe potuto farlo. Controllammo a fondo
il veicolo, dentro non c'era nessuna arma. Queste persone non erano
ribelli, non erano terroristi, non costituivano alcuna minaccia. Sono
state semplicemente assassinate".
Il tono di Massey diventa
più duro. Non riesce più a controllarsi, a tenere dentro
il senso di colpa e la rabbia. "Dobbiamo uscire
da un luogo comune che ci viene ripetuto tutti i giorni: non
siamo portatori di pace, non siamo liberatori. I marines hanno un unico
scopo: uccidere e distruggere. Questo è il nostro lavoro, questo
è il nostro mestiere, questo è ciò che ci insegnano.
Non abbiamo compiti umanitari, non facciamo azioni di peacekeeping:
il nostro obiettivo è semplicemente uccidere e distruggere, siamo
pagati per fare questo".